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VICINO A LEI 

 

Conosco da molto tempo una ragazza. È una ragazza molto particolare. Non ama stare in mezzo alla folla, lasciarsi andare, ama la riflessione, l'umorismo che nasce dal saper vivere, la dolcezza di un tardo pomeriggio estivo. Per me certe sue azioni sono ancora cariche di mistero: quando è svogliata, scostante, quando non crede in sé e dice che non ce la farà mai a realizzare il suo grande sogno. Eppure la vedo infinitamente bella specchiarsi dal Ponte Vecchio nelle acque dell'Arno, lei con gli occhiali, lei senza tacchi a spillo e calze a rete, lei che non si trucca se è un po' giù. Parlando con altre persone, qualcuno mi dice che è immatura, o che non è determinata, che è troppo pessimista e le continuano a dire che la fortuna aiuta gli audaci, che niente è impossibile, e così via. La vedo dormire distesa sul divano, sulle gambe c'è sempre Amadeus, il suo gatto, i capelli neri e ricci sono spettinati: quello è l'unico momento in cui è veramente mia. Per il resto del giorno e della notte si affanna a far parte del mondo: studia, lavora, ama la fotografia, le mostre di pittura, il cinema, fa la speaker in una radio, legge molto e ha paura della gente. La picchierei quando vedo che si sente inferiore a delle persone che non valgono un quarto di lei, quando sparisce in mezzo a persone fra cui dovrebbe farsi largo. Poi d'improvviso la sento piangere, la notte, in camera sua, nel buio e vorrei dirle che non si deve preoccupare, che è più forte di ciò lei stessa crede. A pranzo la sento parlare con tanto entusiasmo di ciò che vuole fare, del suo amore per Firenze. A cena la vedo sfinita, insondabile come la notte.

 

Quando tentò di uccidersi mi sembrò di soffrire con lei, una notte passata a lottare per ricominciare a svegliarsi ogni mattina con il coraggio di vivere. Chi è questa ragazza che amo da morire? Perché, nonostante la sua insicurezza, credo ciecamente in lei? Mi sembra bella, intelligente, mi sembra che non le manchi niente per essere felice, invece… la vedo soffrire in modo tremendo.

 

Alla sua età avrei voluto essere anch'io come lei, ma non ne ebbi il coraggio perché bisognerebbe aver troppa poca paura della solitudine per farlo. Non accetta compromessi, critica troppo gli uomini, ha troppa fiducia nelle amicizie, eppure se fossi un uomo me ne innamorerei. È piena di difetti: è pignola, intransigente, lamentosa e rompiscatole. È piena di qualità: sincera, generosa, simpatica (con chi vuole), imprevedibile. Mi fa partecipe della sua vita, vuole che sappia ciò che ammira e perché lo ammira e io mi sforzo di capire. Mi inietta la sua vita, la sua foga di sapere, di conoscere, mi racconta tutto anche degli uomini, dei problemi che ha con loro e io scopro con lei quanto la vita sia varia, infinitamente bella anche nel pianto. Io che ho sempre creduto di sapere qual era il bene e il male, di sapere cosa andava fatto e costruito! Lei ha distrutto tutte le mie convinzioni e mi ha dato un foglio bianco su cui scrivere chissà cosa. Non so cosa dirle, non so cosa fare, voglio solo vederla e stare vicino a lei. Come è potuto succedere? Dove ha trovato tutta la sua autonomia? Da cosa sono nate le sue ambizioni?
So solo che l'amo, che impazzirei se le succedesse qualcosa di  male, che sarò contenta di lei anche se non realizzerà niente.

So solo che mi sembrerà sempre un po' mia, senza schemi e senza convinzioni.

So solo che vorrò esserle accanto quando avrà il suo primo capello bianco.

So solo che se non fossi stata sua madre… avrei voluto essere sua figlia. (Silvia Innocenti Caramelli)

 

Lessi questa bellissima "dedica" quando ero ancora adolescente, su uno di quei rotocalchi da sala d'aspetto, tra le pagine nelle quali pubblicavano le lèttere degli abbonati. La copiai sul mio diario... avrei tanto voluto una madre così. O magari un padre di questo tipo. Ma soprattutto mi sarebbe piaciuto essere questo genere di figli*. Indipendentemente dal "genere". 

Leggerla, mi tocca tuttora nel profondo e soltanto da qualche anno a questa parte riesco a non commuovermi quando arrivo alle ultime righe.

 

Mi fa tornare in mente una scena che vidi quando andavo ancora al liceo. Credo fosse l’ultimo anno. Anzi, no: quel giorno avevo fatto sega col mio vespone 125 px bianco, quindi ero al terzo anno. Stavo da solo (saltare le lezioni in solitaria: che tristezza), seduto su una panchina del Pincio, in una bella giornata di primavera, probabilmente a maggio. A una trentina di metri da me, su un’altra panchina, c’erano due persone. Le osservai meglio. Un padre col proprio figlio (adolescente come me e con il look da pariolino), discorrevano serenamente del più e del meno, ridacchiando con complicità. L’uomo, di bell’aspetto e ancora in splendida forma, aveva un abbigliamento raffinato e parlava senza alcun accento dialettale. Lavorava lì vicino e aveva fatto un break per incontrare il proprio figlio, che si rivolgeva a lui con estrema confidenza, ma sempre con rispetto. Era evidente che si stimassero reciprocamente.

Quando liberarono la panchina, andai a sedermici sopra per respirare il profumo del loro mondo perfetto.

Rimasi lì per un bel po'... Da solo, come un coglione.

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