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PARTORIRE IN CASA

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Sonia nacque Il 7 agosto del 1970, a casa di nonno Peppino, in Via Prenestina 129. Durante il travaglio, mi avevano parcheggiato dalla signora Leoncini, la dirimpettaia. Quando vennero a chiamarmi, dopo non so quante ore, ero agitatissimo. Entrai nella camera dove mia madre aveva appena partorito e la trovai sdraiata sul letto, in camicia da notte, che mi invitava ad avvicinarmi per vedere la bellissima bambina che teneva in braccio. Pelata come Yul Brynner, una faccina serena e il corpicino tutto incipriato di borotalco, il cui odore pervadeva la stanza: lei era mia sorella ed io non ero più solo…

​La scelta azzardata di partorirla in casa doveva servire a mettere in atto il piano "diabolico" che i miei avevano architettato per darle il cognome di mio padre. Attenzione: Il cognome! Non la paternità! 

Perché all'anagrafe, la registrarono, sì, come Sonia Canini, ma figlia del fratello di mio padre. Zio Luciano! E la madre? Ignota! Colpo di scena! Figlia di NN, dunque! Sublime. Puro avanspettacolo.

Riassumendo, secondo i nostri dati anagrafici, io e mia sorella non avevamo alcun legame di parentela. Ma perché mio zio si era assunto la paternità di Sonia? L'unica spiegazione logica, si fa per dire, è che mio padre, non avendo ancora regolarizzato la sua separazione con l'ex moglie, temeva l'accusa di concubinato e così aveva pensato bene di coinvolgere suo fratello. Ora però, se è vero che nel 1964 questi tipi di reati erano ancora perseguibili penalmente, ho scoperto, facendo una rapida ricerca sul web,  che nel 1970 li avevano abrogati già da uno o due anni. È possibile che i miei genitori non ne fossero ancora informati? Beh, sì, è possibile. Uno sforzo inutile, quindi!

Oltretutto i rapporti tra mio padre e la sua famiglia si erano già incrinati da tempo. E cioè da quando lui aveva abbandonato la sua ex moglie, incinta di otto mesi. La versione di mio padre è che se ne era andato dopo averla "beccata sul fatto" mentre faceva sesso con un altro. Per cui, il bambino che aveva in grembo non era il suo. Angelino Canini coglie in flagrante la moglie con l'amante e non li ammazza?! Poco credibile. Fatto sta che, a causa del guazzabuglio che aveva creato alla nascita di Sonia, i fratelli e le sorelle di mio padre lo estromisero definitivamente dalla famiglia. Non rividi più quasi nessuno di loro. Tanto non mi consideravano un Canini...

 

 

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Questa è una poesia di Trilussa che nonno Corrado mi fece imparare a memoria:

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ER PASSERO FERITO

 

Era d'Agosto e un povero ucelletto, 

ferito da la fionna de’n maschietto,

s’agnede a riposà co ‘n’ala offesa, 

su la finestra aperta de’na chiesa.

 

Da le tendine der confessionale, 

un prete intese e vidde l’animale,

ma dato che lì fori c’ereno nun so quanti peccatori,

richiuse le tendine espressamente, 

pe rimettesse a confessà la gente.

 

Ma mentre che la massa de persone, 

diceva l’orazzione

senza guardà pe’ gnente l’ucelletto,

‘n omo lo prese e se lo mise in petto…

 

Allora ne la chiesa se sentì, 

un lungo cinguettìo: cì-cì, cì-cì…

Er prete, risentendo l’animale, lasciò er confessionale,

poi, nero nero peggio de la pece, 

s’arampicò sur purpito e lì fece:

 

"Fratelli, chi ha l’ucello per favore

vada fora dar Tempio der Signore!".

Li maschi, tutti quanti in de 'na vorta, 

partirono p’annà verso la porta,

 

ma er prete, a que lo sbajo madornale:

"Fermi!", strillò "che me so espresso male…

Tornate indietro e stateme a sentì:

qua, chi ha preso l’ucello deve uscì!".

 

A testa bassa e la corona in mano,

cento donne s’arzorno piano piano.

Ma mentre se ‘n’annaveno de fora, 

er prete ristrillò: "Ho sbajato ancora!".

 

Rientrate tutte quante fije amate, 

ch’io nun volevo dì quer che pensate.

Io v’ho già detto e ve ritorno a dì, 

che chi ha preso l’ucello deve uscì,

 

ma io lo dico a voce chiara e stesa, 

a chi l’ucello l’abbia preso in chiesa!".

In quello stesso istante, 

le moniche s’arzorno tutte quante,

 

e ppoi, cor viso pieno de rossore, 

lasciarono la casa der Signore.

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Del mio nonno paterno ho pochi ricordi. Si chiamava Corrado Canini e morì di tumore al colon, all’età di 68 anni. Era "romano de Roma" e amava scrivere poesie in dialetto romanesco, vantandosi spesso di aver conosciuto Trilussa all’osteria dove si incontravano abitualmente. Prima del pensionamento, aveva lavorato per tanti anni come banchista al Caffè Tazza D’Oro, un famoso bar vicino al Pantheon la cui specialità era la granita di caffè con panna, ancora oggi molto apprezzata dai turisti (ma anche dai romani). Lui e nonna Ida abitavano in una casa popolare a Val Melaina, il quartiere dove era nato e cresciuto mio padre. Un giorno passammo a far loro visita, senza avvisare perché ci trovavamo in zona. Salendo le scale, incontrammo un vicino che salutò mio padre facendogli le condoglianze. È in questo modo che venimmo a sapere della morte di nonno Corrado. Nessuno ci aveva avvisati. Salimmo velocemente i piani restanti. La porta di casa era spalancata. Avevano già allestito la camera ardente. Persone che non conoscevo girovagavano per le stanze in penombra, a causa delle serrande abbassate. Lo trovammo lì, sdraiato sul suo letto, vestito elegante, gli occhi chiusi, le mani poggiate sulla pancia, i ceri accesi sui comodini. Dalla bocca socchiusa si intravedeva un grosso batuffolo di cotone. Ne chiesi il motivo e mia madre mi spiegò che l’ovatta andava messa per evitare il cattivo odore. 

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(da terminare)

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