DI PATRIZI - UN COGNOME
Un tempo il cognome di un individuo poteva suggerire da quale città provenisse o quale fosse il suo mestiere. Era una sorta di biglietto da visita, diciamo. Un po' come per gli Indiani d’America: “Balla coi lupi” o “Alzata col pugno” rivelavano una caratteristica saliente della propria personalità.
Oggi il cognome è solo un suono, una successione di sillabe che non raccontano niente. Non parla in alcun modo di noi. È poco più di un timbro sulla pelle, per la consumazione. Di contro, alcune volte, può celare scomode verità. Nascoste… per mantenere le apparenze.
Il mio, ad esempio, non è davvero “il mio”. Quando seppi che mi chiamavo “Di Patrizi”, e non “Canini” come mi avevano fatto credere i miei genitori fino a quel momento, avevo quasi 15 anni.
Non dimenticherò mai il primo giorno di scuola del secondo anno di liceo, quando risposi “presente” col nuovo cognome, nello stupore generale di tutta la classe. Avevo già raccontato la novità a Massimo, il mio migliore amico, che però non ci aveva capito un caxo. Così ai miei compagni di scuola dissi che, Di Patrizi, era il cognome di mia madre e che ce l’avevo perché, quando ero nato, i miei non si erano ancora sposati. Però mia madre si chiamava Anna Maria Di Noia. Mio padre, Angelino Canini. Niente a che vedere con Di Patrizi, quindi!
Per spiegare da dove spunti questo cognome, dovrò riavvolgere il nastro al 1962, anno in cui i miei si conobbero. Come e in quali circostanze, non mi è dato saperlo. So soltanto che erano entrambi sposati con qualcun altro e che abbandonarono i rispettivi tetti coniugali per “fuggire via insieme”, travolti dal classico colpo di fulmine. Dopo un paio di anni nacqui io. A quei tempi, evidentemente, il diritto di famiglia era molto più incasinato di oggi. E siccome mia madre non aveva ancora regolarizzato la separazione da Enzo Di Patrizi, suo legittimo marito, mi beccai il suo cognome. Decisione sofferta, immagino, ma che Enzo aveva accettato di prendere, malgrado tutto e in accordo coi miei genitori, per evitare che nei miei dati anagrafici risultasse un bel "Figlio di N.N." (acronimo di Nescio Nomen = non conosco il nome). In realtà, tutto questo pastrocchio era nato anche dall'esigenza di non lasciare alcuna traccia burocratica di quello che, all'epoca, veniva ancora considerato un reato: l'Adulterio. Secondo il codice penale, era prevista la condanna a un anno di reclusione per mia madre e due anni per mio padre, se Enzo li avesse querelati. Un santo, st'omo.
Divenuto adulto, ero riuscito anche a unire alcuni puntini: ecco! perché, nonostante non ce la passassimo bene economicamente, mi iscrivevano quasi sempre a scuole private: perché, pagando, potevano sperare di ottenere la sostituzione del cognome sul registro di classe! Una sorta di Falso in Atto Pubblico, questo era! Finite le medie, mi avevano segnato a un liceo scientifico che stava al Pigneto, a due passi da casa, senza rispettare il mio desiderio di frequentare il liceo artistico, nonostante l'avessi espresso sin dalla prima media. Probabilmente non avevano trovato alcun liceo artistico nel quale il preside fosse disposto ad avallare questa assurdità. Peccato perché, per le elementari e le medie, mio padre ci era riuscito eccome, a mettere in piedi 'sto teatrino! Primo anno di liceo compreso. Per quale motivo, poi, l'ultimo preside aveva fatto dietrofrónt all'inizio del secondo anno? Semplice: perché i miei erano sempre in fortissimo ritardo coi pagamenti della retta!
Nisi reddere non acceperis. La mia copertura era saltata: missione fallita.
Avevo appena varcato la soglia della mia adolescenza, pronto a sperimentare le mie prime cotte, i primi impulsi di gelosia, e scoprire da un giorno all'altro che portavo il cognome dell’ex marito di mia madre mi sembrò una grave umiliazione, per mio padre. Mi sentivo terribilmente in colpa. Ero la sua vergogna, per questo motivo lo aveva nascosto al mondo! Anche per questo, forse, mi aveva sempre menato con così tanta rabbia!
Prima di sapere che all’anagrafe non ero registrato come Roberto Canini, quelle che credevo fossero le mie iniziali, RC, le avevo sempre viste come un segno di appartenenza, un logo, una Firma che cercavo per gioco tra le scenografie delle mie giornate: RC sul pulsante di richiamata dell’ascensore; RC sulla chiave di casa per la serratura a tripla mandata; RC sulla targa di una macchina. Queste, per me, non erano soltanto coincidenze, ma segnali! la Vita mi stava facendo l’occhiolino.
Ancora oggi, quando mi capita di leggere sbadatamente RC, magari camminando tra gli scaffali di un supermarket, mi sorprendo a sorridere…
La sensibilità, per alcuni individui, è uno strumento davvero affilato e può rivelarsi sorprendentemente illuminante quando non lo si rivolge contro sé stessi...
Avrò avuto quattro o cinque anni (sicuramente meno di sei perché Sonia non era ancora nata). Mia sorella Camilla, più grande di me di nove anni, non viveva con noi. La vedevo raramente, forse una volta l’anno, perché stava in un collegio, costretta in carrozzina per colpa della poliomielite che aveva contratto a soli otto mesi. Era molto affettuosa con me ed io contraccambiavo il sentimento. L’unica cosa che mi irritava tantissimo, anzi che mi faceva proprio imbestialire, era il suo rivolgersi a mio padre chiamandolo “papà”. E non lo nascondevo mica! - NON VOGLIO CHE LO CHIAMI COSÌ! - le gridavo. Poi, un silenzio assordante invadeva la stanza… e nessuno che mi riprendesse.
La cosa strana è che di solito, invece, mio padre mi riempiva di botte se solo guardavo nella direzione sbagliata, lasciando ogni volta le strisce viola, gonfie e infuocate, della sua cintura sulle mie gambe. Un dolore indescrivibile che non riesco a dimenticare. Avrei fatto e detto qualsiasi cosa per farlo smettere: - Scusa Papà! Scusa Papà! Non lo faccio più! PERDONO, PERDONOOO! -
Ma lui continuava. Continuava fino a sfiancarsi, con la faccia trasformata dalla furia, la bava che gli puzzava di nicotina e di denti cariati... Il terrore mi devastava. Ogni volta. E capitava spesso.
Mai portati, i pantaloni corti.
Ma allora perché nessuno mi rimproverava quando reagivo in quel modo con mia sorella? Semplicemente perché avevo inconsapevolmente ragione! Li spiazzavo: infatti Camilla non era figlia di mio padre ma di Enzo! Povera sorella mia, 13/14enne, costretta a chiamare “papà” l’uomo con il quale sua madre era scappata, abbandonandola. E solo per mantenermi all’oscuro di tutto. Ma io lo intuivo ugualmente, dal tono della voce, che qualcosa non andava!
L'ottusità e l'insensibilità generano spesso crudeltà grottesche.
– La Gente: un insieme di persone di cui, in fondo, ho paura. Temo la loro stupidità come temo la mia. Perché la stupidità può uccidere. Sa essere bieca e malevola, la gente, e il più delle volte è grigia. –
Sono stato il figlio che avrei voluto e il padre di cui avrei avuto bisogno per diventare la bella persona che avrei potuto essere. Ho sempre creduto negli altri fino a prova contraria. A pochissimi intimi, ho continuato a credere nonostante le innumerevoli prove contrarie... Le conseguenze hipster dell’amore. Mi si potrebbe definire “ingenuo” ma io non mi ritengo tale: se mi dici che adori il blu, non ho motivo di pensare che invece potrebbe piacerti il giallo ma che vuoi nasconderlo per un tuo calcolo fantascientifico. E se io, poi, volessi fare un gesto carino nei tuoi confronti, potrebbe essere quello di regalarti qualcosa di blu. Una falsità provoca sempre due delusioni.
Chi sei?
Sono una piccola poesia su una pagina con spazio per un’altra.
Condividi con me questo campo bianco largo quanto un acro di neve
intatta tranne per questi piccoli segni come impronte di uccelli.
Vieni. Ora. Questo è il ventre dell’onda.
I secondi che seguono il fulmine.
Sottile fetta di silenzio mentre la musica cessa.
Il gelo prima dello scioglimento.
Sdraiati accanto a me.
Crea angeli. Crea demoni.
Crea chi sei tu.
Tratto dal film Words and Pictures di Fred Schepisi
Ci sono tre canzoni che mi prendono talmente tanto da non riuscire ad ascoltarle senza singhiozzare (letteralmente). Per questo, evito di sentirle.
• La prima è “051/222525” di Fabio Concato e il motivo per cui non ci riesco credo di averlo spiegato una trentina di righe fa.
• la seconda canzone è “Niente Di Più” dei Lùnapop. Non ci riesco dal luglio del 2000, quando morì improvvisamente mia sorella Sonia, per un aneurisma cerebrale, a pochi giorni dal suo 30esimo compleanno. Portò la mano all'altezza della tempia sinistra, accusando un forte dolore. Poi svenne, per non svegliarsi mai più. Questo è il mostro più brutto e spietato che ho dovuto affrontare, senza averne né il coraggio né la forza, che mi ha dilaniato nel peggiore dei modi.
• la terza è “A Muso Duro” di Pierangelo Bertoli, brano che intonavo quotidianamente e con grande trasporto, per le vie del centro. Da allora, non l'ho più cantata.
Ad essere onesti, non tocco più una chitarra da tantissimi anni, ormai (neanche ce l'ho più, una chitarra). È stato per via di quel "tour stanziale" di mille date che feci in Via della Maddalena, dietro al Pantheon di Roma, tra il '95 e il '98. In quell'antico vicolo consumai completamente il mio amore per la musica buttando via, giorno dopo giorno, tutti quanti i frantumi di una passione fracassata dal bisogno.