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CAMPAGNE ELETTORALI

 

Quante botte mi diede mio padre, quella volta che mancai di rispetto a mia madre! 

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Erano gli inizi degli anni ’70 e i miei avevano perso da poco il bar che gestivano a Monte Verde vecchio. Glielo avevano chiuso forzosamente a causa del fallimento del bar precedente, quello a Piazza Del Monte, che avevano venduto a due giovani e per il quale mio padre, per aiutare i nuovi gestori, aveva avallato delle cambiali che però, poi, nessuno aveva mai pagato. Questo è ciò che so io…

Così, per sbarcare il lunario, si arrangiavano come potevano. Uno dei lavori che rimediarono in quel periodo fu di collaborare alle campagne elettorali del Partito Comunista, sia per le politiche che per le amministrative (affissione manifesti, distribuzione volantini, creazione di striscioni, passeggiate col megafono urlante sul tetto dell'automobile). Quante ore abbiamo passato seduti in macchina, io e Sonia (lei nel seggiolino)!

Ricordo Carla Capponi. Sarà stato il 1971 o il ’72. La accompagnammo in lungo e in largo per il Lazio a fare comizi nelle piazze dei tanti paesini. Ero affascinato da lei. Una signora autorevole, ma sempre attenta e gentile con chiunque. Quando parlava sul palco, tutti la ascoltavano in silenzio. Iniziava piano per poi infervorarsi, puntualmente, dicendo sempre le medesime cose come se lo stesse facendo per la prima volta. E la gente esultava, batteva forte le mani, cantava roteando bandiere rosse! Una festa bellissima. E quel profumo inebriante si salsicce arrostite…

 

Un giorno, mia madre ed io, eravamo in macchina che aspettavamo mio padre, parcheggiati di fronte alla sede della Federazione Italiana del Partito Comunista, in Via dei Frentani. Lei seduta davanti, lato passeggero, e io dietro di lei. I finestrini erano abbassati, faceva caldo. Passò un gruppetto di coatti, sul piccolo marciapiede alla nostra destra. Uno di loro, dopo averci osservato, disse: - Oh, ammazza!? Sta cicciona de mmerda è riuscita a trova' quarcuno che sse è scopata e 'ha messa pure 'ncinta! - E gli altri a ridere, sguaiatamente. Mi assalì un'intensa rabbia, senza che riuscissi a domarla. Mi affacciai al finestrino e gli gridai dietro: - ANNATE A FFANCULO! - Fortunatamente non raccolsero e continuarono a ridere, proseguendo a camminare. Mia madre, in compenso, si girò di scatto verso di me sgridandomi: - NUN TE PERMETTE MAI PPIÙ DDE FA' NA COSA DER GENERE, DEFICIENTE! -

Io, che l’avevo appena difesa, sentendomi tradito le risposi di getto: - Stronza! - (la prima e ultima volta).

Quando mio padre rientrò in macchina, mia madre gli disse subito: - Tu' fio m’ha detto stronza. - E lui a me: - A casa famo i conti. -

E così fu. Appena rincasati, mi prese sotto l'ascella e mi trascinò a forza nella mia cameretta. Chiuse la porta dietro di sé e si tolse la cintura...

Mia madre, la mandante, guardava la tv in camera da pranzo.

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Per via delle collaborazioni effettuate durante le campagne elettorali e, molto probabilmente, grazie anche al rapporto amicale creatosi con Carla Capponi durante il “tour”, mio padre riuscì ad ottenere il tanto agognato "posto fisso" in qualità di fattorino a Paese Sera, testata giornalistica di proprietà del PCI. La sede di questo giornale era in Via dei Taurini, proprio sopra la redazione de l’Unità, storico quotidiano di Partito. Nell'ampio seminterrato di quel palazzo c'erano le rumorosissime ed enormi rotative, che servivano a stampare entrambi i giornali.

Quel giorno mio padre mi aveva portato in ufficio con lui e parcheggiato in una stanza dicendomi: "Aspetta qui, torno tra 'n po'. Nun tocca' gnente, m'ariccomanno". Lì dentro, poggiate su dei banchi accostati alle pareti, c'erano una dozzina di strane macchine da scrivere prive di tastiera (tranne un paio) alcune delle quali stavano battendo dei testi in automatico. Di fianco all’entrata c’era scritto “Telescriventi”. Entrò un signore senza salutarmi, anche lui ad aspettare, col soprabito al braccio. Mi guardò come se io fossi un adulto e, nello stesso modo, accennò un sorriso. Era Paolo Villaggio. Qualche secondo dopo, prese in mano uno dei tanti fogli sparsi su una scrivania. Lo osservò per un attimo, poi lo mostrò a me, dicendo con voce roca: “Guarda questo qui, che faccia da cazzo, che c’ha”. Risi... si trattava di una foto di Bréžnev. Di lì a poco si affacciò una donna che lo invitò a seguirla e lui uscì dalla stanza, di nuovo senza salutare.

L’attesa si stava prolungando e cominciavo ad annoiarmi. Mi avvicinai a una telescrivente provvista di tastiera e, per gioco, scrissi: “a stronzi” (quanto me piaceva, ‘sta parolaccia!). Poi mi spostai velocemente dall'altra parte della stanza.

Il giorno seguente, a cena, mio padre raccontò a mia madre che sul lavoro era successa una cosa gravissima. Qualcuno dall’esterno era riuscito a collegarsi alle reti telegrafiche delle agenzie di stampa e aveva scritto un messaggio minatorio a sfondo politico. Sicuramente erano stati i fascisti.

Quella stessa sera, a letto, mi assalì un dubbio atroce: ma non è che stavano parlando di quello che avevo scritto io con la tastiera? La mattina dopo raccolsi tutto il coraggio di cui avevo bisogno e andai da mio padre a vuotare il sacco. Era presente anche mia madre. Iniziarono a ridere, e a ridere. Avevano le lacrime agli occhi. Poi mio padre disse a mia madre: “Però 'sta cosa nu la posso di’, su al lavoro. Si ll'aricconto, me licenzieno”. Non mi picchiò! Ma come? Per le caxate mi gonfiava di botte e per le cose gravi no? Boh...

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Pur non capendo nulla di fascismo e di comunismo, sapevo che stavano gli uni contro gli altri e che si ammazzavano per questo. Non potevo permettere che lo facessero per colpa mia. Avevo confessato la mia marachella, disposto ad affrontare le cinghiate, soltanto per questo motivo. E non era servito a niente.

 

Ho questo ricordo: ero lì che giocavo, sul marciapiede davanti al nostro bar in Viale di Villa Pamphili. A un certo punto uscì frettolosamente mia madre, mi prese per un braccio e mi strattonò dentro. I pochi clienti che stavano consumando uscirono immediatamente, mentre mio padre aveva già iniziato ad abbassare la saracinesca a maglie larghe del negozio. Dopo aver spento tutte le luci, ci nascondemmo dietro al bancone. “Zitti! Zitti...” Stava arrivando un corteo ma, a giudicare dalla reazione di tutti, sembrava più l'invasione dei morti viventi. Al passaggio dei manifestanti, ne intravidi alcuni che indossavano dei caschi da moto, altri che impugnavano grosse catene. Uno di essi lanciò una bottiglia sul tetto di un'auto che prese subito fuoco. Ruppero anche la vetrina del negozio di giocattoli adiacente al bar. La nostra, fortunatamente, la saltarono. Erano estremisti di destra, credo... o forse di sinistra, non lo so.

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(da terminare)

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